Segreti in tavola

18.07.2022
I Presidi Slow Food: Daniele Galli ci svela i segreti dei Meloni Reggiani
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Presidi Slow Food: i meloni reggiani

La coltivazione dei meloni ha una lunga tradizione nel reggiano. Nelle valli bonificate tra Novellara, Guastalla e Santa Vittoria rappresentava un’integrazione del reddito per i braccianti agricoli e i contadini, che li vendevano sui mercati locali.
I meloni (Cucumis melo) sono di vari tipi: alcuni sono retati in superficie e appartengono al gruppo reticulatus; i cantalupensis, invece, sono lisci e hanno una forma schiacciata ai poli, gli inodorus hanno forma ellittica allungata, profumo lieve e grande conservabilità (sono detti anche meloni invernali). Nel reggiano si coltivavano varietà di ognuna di queste tipologie: alcune sono sopravvissute e sono ancora disponibili, benché non facili da reperire.
C’è il melone ramparino (che appartiene al gruppo dei reticulatus), che ha dimensioni medio-piccole, polpa di colore verde chiaro molto profumata e gusto intenso e deciso, quasi piccante. Cresce facilmente arrampicandosi su reti e sostegni (di qui il nome). Diversi testi di fine Ottocento e inizio Novecento citano un melone rampicante verde e nel libretto di Carlo Casali del 1915 “I nomi delle piante nel dialetto reggiano” compare un mlòun ramparèin. In provincia di Rovigo, invece, era chiamato peverin, per via del gusto leggermente piccante. Un tempo questo melone era diffuso su un areale abbastanza vasto lungo la valle del Po. Coltivato fino ai primi anni ’70 – quando si poteva ancora trovare dai fruttivendoli -, nel giro di poco tempo è stato abbandonato a causa di due punti deboli: la scarsa resistenza alla fusariosi e il gusto non dolcissimo.
Il melone rospo (un cantalupensis) è il più curioso tra gli antichi meloni e deve la sua particolarità all’aspetto simile a una zucca. Meloni con questo aspetto e con una superficie bugnosa e verrucosa (da cui il nome “rospa”) compaiono in diversi dipinti italiani tra il ‘500 e il ‘600, ad esempio negli affreschi di Palazzo Tè, a Mantova, e sono citati dall’agronomo reggiano Filippo Re, in un documento del 1811. Hanno un gusto molto particolare, non molto dolce, sapido e leggermente piccante, molto più deciso rispetto a quello dei meloni moderni. I meloni rospo sono eccellenti cotti al forno con cioccolato e amaretti, come le pesche.
Il melone banana Santa Vittoria appartiene probabilmente al gruppo inodorus, quello dei meloni tardivi o invernali, ovvero più serbevoli, ma scarsamente odorosi, anche se questo ecotipo ha profumo più intenso rispetto alla media, con una marcata nota di banana. Ha forma ellittica, buccia sottile e polpa biancastra e dolce.
Il melone banana di Lentigione, forse appartenente al gruppo cantalupensis, è il più misterioso tra gli antichi meloni reggiani: le sue origini sono ignote, non assomiglia a nessun altro melone italiano (non ha nulla a che vedere con le altre varietà chiamate banana) ed era conosciuto solo nell’area tra Brescello (Re) e Sorbolo (Pr). È un melone tondo e liscio, privo di costolature e ha una buccia verde scuro screziato durante l’accrescimento, che diventa giallo arancio a maturazione; la polpa è biancastra, tenera e dolce se raccolto a giusta maturazione, con un profumo intenso e molto gradevole. Per il suo sapore è più adatto a essere consumato come frutto anziché abbinato a pietanze salate e salumi. Ottimo anche per preparare sorbetti artigianali.
Tutte le varietà  prediligono terreni misto argillosi. Il clima è quello tipico della medio-bassa Pianura Padana, con inverni freddi e umidi ed estati calde e afose. La semina viene tradizionalmente effettuata tra la seconda metà del mese di marzo e la prima metà del mese di aprile, aspettando il rialzo e la stabilizzazione delle temperature primaverili. Per fare fronte alle elevate esigenze idriche i produttori ricorrono all’irrigazione localizzata a microportata sotto pacciamatura. Le aziende sono a regime di agricoltura biologica.
La raccolta dei meloni inizia al termine del mese di giugno, si protrae a luglio e si concentra nella prima metà del mese di agosto. Escluso il Banana di Santa Vittoria, che ha una conservabilità di alcuni mesi, le altre varietà vanno consumate entro pochi giorni dalla raccolta.
Diffusa sino alla seconda metà del secolo scorso, oggi la coltivazione dei meloni tradizionali è limitata a piccole superfici a uso familiare o per il mercato locale. Una produzione più specializzata si è sviluppata a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, quando fecero la loro comparsa varietàÌ ibride americane come la Harper, la Supermarket, la Burpee, la Sweet rock. Queste varietà hanno una maturazione più uniforme, garantiscono un’elevata produttività, una qualità molto costante, un contenuto zuccherino elevato e soprattutto una lunga shelf life (tempo di conservazione a scaffale). Tutte caratteristiche apprezzate in un sistema di mercato dominato dalle regole della grande distribuzione organizzata.
Gli antichi meloni reggiani hanno invece caratteristiche che mal si coniugano con i trasporti e le lunghe permanenze sugli scaffali dei supermercati. Hanno un intervallo di maturazione breve, e generalmente una conservabilità scarsa, alcuni giorni se refrigerati.
Grazie al lavoro di recupero e selezione del seme svolto dall’Istituto di istruzione superiore A. Zanelli di Reggio Emilia oggi la produzione degli antichi meloni è stata ripresa da alcuni contadini del territorio reggiano (e anche a nord del Po). Il Presidio è nato per supportarli, promuovendo la conoscenza e il consumo locale di queste antiche varietà. L’Istituto Zanelli si occupa della conservazione delle sementi, sia in situ (con riproduzione periodica dei semi in campo), sia ex situ (nella banca del germoplasma).

(Se l’hai perso leggi e ascolta l ‘approfondimento Segreti in tavola dedicato all’albicocca di Valleggia)